Prima call conference FCA

Ferrari sarà scorporata da Fca

Via libera del Cda: la separazione verrà attuata attraverso l’offerta pubblica pari al 10% del capitale e la distribuzione della rimanente partecipazione di FCA agli azionisti. Elkann: «Nuovo passo in avanti». Marchionne: percorsi separati, è la scelta migliore

La decisione tanto attesa e annunciata è arrivata. Fiat Chrysler Automobiles, fresca di quotazione a New York, scorpora la Ferrari. L’obiettivo è un’offerta pubblica per approdare a Wall Street e, annuncia il Lingotto, «su un altro mercato in Europa». Via libera poi a un convertendo da 2,5 miliardi e all’emissione di 100 milioni di azioni. Intanto il trimestre vede crescere i ricavi del gruppo con il dimezzamento delle perdite in Europa, mentre sono confermati i target 2014. «Oggi è un grande giorno per tanti motivi – ha commentato l’amministratore delegato Sergio Marchionne in conference call con gli analisti – Sono tutte operazioni che dimostrano il nostro impegno a sostegno del piano industriale. Diamo a Ferrari il giusto valore come produttore di auto di lusso». Buone le prospettive per il futuro. «Siamo ottimisti sui volumi e sull’andamento di Fca nel 2015», ha aggiunto il manager con il maglioncino nero.

 

Dunque il Cavallino Rampante verrà scorporata dal Lingotto. La separazione porterà alla vendita pubblica di una parte della partecipazione di Fca in Ferrari pari al 10% del capitale della casa di Maranello, che sarà collocato sulla Borsa Usa e in un mercato europeo, senza la specificare se si tratterà o meno di Piazza Affari. La restante parte di Ferrari verrà distribuita tra gli azionisti di Fca, di cui la famiglia Agnelli è socia al 30,05% attraverso Exor. «Sono felice di questo nuovo passo in avanti nella strategia di sviluppo di Fca – ha commentato il presidente John Elkann riferendosi all’operazione che ha coinvolto Maranello – Insieme alla recente quotazione delle azioni di Fca sul Nyse, la separazione di Ferrari preserverà la rinomata tradizione italiana e la posizione unica del business di Ferrari consentendo agli azionisti di Fca di continuare a beneficiare del valore intrinseco di questo business».

 

Marchione ha insistito, invece, sul fatto che sia stata compiuta la scelta migliore per Ferrari e il gruppo. «Il cda sostiene la convinzione del management che quest’operazione rappresenti per Fca la scelta migliore per supportare il successo del gruppo nel lungo termine e nel contempo rafforzare significativamente la struttura del capitale di Fca. Con l’intento di rafforzare il Piano 2014-2018 e di massimizzare il valore dei nostri business per gli azionisti, è appropriato che noi perseguiamo percorsi separati per Fca e Ferrari».

 

Detto questo, Fca ha scelto di rafforzare il capitale. Una decisione presa, spiega una nota, «nell’ambito di un piano per la realizzazione di una struttura di capitale appropriata a sostenere lo sviluppo di lungo termine del gruppo». In questa stessa direzione si inserisce inoltre l’annuncio di un bond convertendo. È un’obbligazione da 2,5 miliardi di dollari, alla cui scadenza si avrà la conversione dei titoli in azioni ordinarie. A tutto ciò, infine, si aggiunge il collocamento di 100 milioni di titoli ordinari (tra i quali 35 milioni di azioni proprie e 54 milioni utili per reintegrare il capitale dopo la cancellazione dei titoli che avevano chiesto il recesso dalla fusione Fiat-Chrysler).

 

Tutte queste operazioni dovrebbero essere completate entro fine anno, anche se, si precisa, la tempistica resta subordinata alle condizioni di mercato e ai requisiti previsti dalla normativa applicabile per la registrazione. Exor ha già annunciato che aderisce all’emissione del bond convertendo approvato da Fca, con un investimento di circa 600 milioni di euro. L’investimento, che sarà effettuato attingendo alle risorse disponibili, «ha l’obiettivo di contribuire al rafforzamento patrimoniale di Fca, favorendo la realizzazione degli obiettivi del piano 2014-2018».

 

Piatto ricco, insomma, al termine del primo consiglio di amministrazione riunitosi nella nuova sede di St. James Street 25, a Londra per l’approvazione dei conti del terzo trimestre 2014. Il fatturato della casa automobilistica si attesta a 23,6 miliardi di euro, in crescita del 14% sullo stesso periodo del 2013. Il gruppo che unisce Torino e Detroit conferma i target dell’anno: 4,7 milioni di veicoli consegnati, ricavi a 93 miliardi, Ebit fra 3,6 e 4 miliardi, utile netto di 600-800 milioni, indebitamento netto industriale tra 9,8 e 10,3 miliardi di euro. «I risultati nel terzo trimestre – ha detto ancora Marchionne – dimostrano una solida performance in un contesto di mercato difficile, particolarmente in America Latina. Siamo in linea per conseguire gli obiettivi che ci siamo dati per l’intero esercizio 2014. Con la creazione di Fca e il suo debutto al listino di New York abbiamo intrapreso una nuova fase come azienda globale con possibilità sempre maggiori».

 

Nei singoli settori, si evidenzia il dimezzamento della perdita in Europa, anche se nell’area Emea il gruppo Fca è comunque in rosso di 63 milioni. Bene i marchi del lusso: Fca ha registrato nel terzo trimestre una forte crescita pari al 35%. Ferrari ha registrato ricavi pari a 662 milioni di euro (+24%), con 1.610 vetture consegnate (+8%) e un ebit di 89 milioni, che include i 15 milioni del compenso erogato a seguito delle dimissioni di Luca Cordero di Montezemolo. Al netto di tale importo, l’ebit è cresciuto di 16 milioni. Maserati ha consegnato 8.896 vetture (3.953 nello stesso periodo 2013), grazie a Quattroporte e Ghibli. I ricavi sono pari a 652 milioni (444 milioni), l’ebit è salito da 43 a 90 milioni.

Chrysler Group LLC Reports September 2014 U.S. Sales Increased 19 Percent; Best September Sales Since 2005

October 1, 2014 , Auburn Hills, Mich. – Chrysler Group LLC today reported U.S. sales of 169,890 units, a 19 percent increase compared with sales in September 2013 (143,017 units), and the group’s best September sales since 2005.

The Chrysler, Jeep®, Ram Truck and FIAT brands each posted year-over-year sales gains in September compared with the same month a year ago. The Jeep brand’s 47 percent increase was the largest sales gain of any Chrysler Group brand and the brand’s best ever sales in the month of September. Chrysler Group extended its streak of year-over-year sales gains to 54-consecutive months.

“Continued consumer demand for our new Chrysler 200 mid-size sedan, our Jeep models, and the Ram pickup truck helped Chrysler Group achieve a 19 percent sales increase in September and our 54th-consecutive month of year-over-year sales growth,” said Reid Bigland, Head of U.S. Sales. “Chrysler Group sales continue to demonstrate strength as we recorded our seventh month of double-digit growth this year.”

Six Chrysler Group vehicles recorded their best ever September sales, including the Jeep Wrangler, Jeep Compass, Jeep Patriot, Chrysler 200 and Ram pickup truck. Sales of the 200 were up 15 percent, compared with the same month a year ago. The Jeep and Ram Truck brands recorded the largest percentage sales gains of Chrysler Group brands in September.

Chrysler Group finished the month of September with a 71 days supply of inventory (500,402 units). U.S. industry sales figures for September are internally projected at an estimated 16.6 million units Seasonally Adjusted Annual Rate (SAAR).

Jeep® Brand
Jeep brand sales were up 47 percent, the brand’s best ever sales in the month of September. The brand’s 47 percent increase was the largest percentage sales gain of any Chrysler Group brand for the month. It also was the brand’s 12th-consecutive month of year-over-year sales gains. The Jeep brand has set a sales record in each month this year, including the all-time sales record in May. The Jeep Wrangler, Compass and Patriot each logged their best ever sales in the month of September.

Ram Truck Brand
The Ram pickup truck recorded its best ever sales in the month of September. Sales of the Ram pickup were up 30 percent in September, its 53rd-consecutive month of year-over-year sales gains. Ram Light Duty sales increased 21 percent in September while Ram Heavy Duty pickups were up 49 percent. Ram Truck brand sales, which include the Ram ProMaster van and Ram Cargo Van, were up 35 percent in September, the brand’s best September sales since 2005. Cargo Van sales were up 13 percent in September, its best ever sales in the month of September.

With sales of the Ram pickup on a 53-month sales streak, Chrysler Group’s Warren Truck Assembly Plant in Michigan is increasing production. The plant that built back-to-back Motor Trend Truck of the Year winners in 2013 and 2014 will be building an average of an additional 100 vehicles a day or 28,585 more trucks a year to keep up with demand.

Chrysler Brand
Chrysler brand sales were up 14 percent, the brand’s best September sales since 2007. The sales increase was driven by the Chrysler 200 mid-size sedan and the Chrysler Town & Country minivan.  Sales of the 200 were up 15 percent last month, its best ever sales in the month of September.

Sales of the Town & Country minivan were up 23 percent in September, the minivan’s best September sales in eight years. Continuing to offer the versatility and functionality it is known for, the Town & Country minivan is available in two additional models for 2015:  The Town & Country LX offers an exceptional level of standard content at a starting price under $30,000; the Town & Country Limited Platinum builds on the luxury and convenience of the Town & Country Limited.

FIAT Brand
Sales of the Fiat 500 were up 29 percent in September compared with the same month a year ago. It was the 500’s best September sales since 2012. FIAT brand sales, which include the 500 and Fiat 500L, were up 6 percent in September. Sales of the 500L resumed last week following a recall that affected an estimated 29,500 vehicles in the U.S. and Canada. The knee air bags were replaced in these vehicles.

Dodge Brand
The Dodge Journey, Grand Caravan and Viper each recorded year-over-year sales increases in September. Sales of the Grand Caravan were up 3 percent, the minivan’s best September in two years. The Journey mid-size crossover logged its best September sales in two years as well. Viper sales were up 140 percent in September, reflecting the repositioning of the iconic Detroit-built supercar for 2015. Dodge brand sales were down 9 percent in September compared with the same month a year ago.

The Dodge brand auctioned the first production 707-horsepower 2015 Dodge Challenger SRT Hellcat VIN0001, the most powerful and fastest muscle car ever, for $825,000 at the Sept. 27 Barrett-Jackson Las Vegas 2014 auction. The auction benefitted Opportunity Village, a not-for-profit organization that serves people with significant intellectual disabilities in the Las Vegas area. The Engelstad Family Foundation of Las Vegas matched the auction price, bringing the grand total raised for Opportunity Village to $1.65 million. With their generous donation, the Dodge Challenger SRT Hellcat raised more money for charity than any other car in Barrett-Jackson history.

La ricetta di #Marchionne – intervento al forum Ambrosetti 2014 trascrizione

Sergio Marchionne – Trascrizione del discorso al Forum Ambrosetti di Cernobbio – settembre 2014

 

Signore e Signori, buongiorno. Mi scuso in anticipo con tutti quelli a cui non piacciono le slide, ma ne ho portate alcune. Mi pare che, tra i relatori di oggi, la mia voce sia l’unica dal mondo delle imprese, ma non ho la pretesa né il ruolo di parlarvi a nome di tutti. Quello che posso fare è portarvi l’esperienza di un gruppo industriale come Fiat Chrysler Automobiles, che opera in 190 paesi e occupa più di 300.000 persone nel mondo.

 

E se contiamo anche Cnh Industrial, la società nata nel 2011 dalla scissione del gruppo Fiat e in cui sono ancora coinvolto, stiamo parlando di una realtà complessiva di oltre 370.000 lavoratori; di due aziende globali che nel loro insieme fatturano circa 113 miliardi di euro. Ho pensato a lungo su come aprire il mio intervento oggi.

 

Nelle scorse settimane, e specialmente negli ultimi giorni in occasione di questa conferenza, si sono sentiti e letti fiumi di parole su politiche e modalità per far ripartire questo paese. Il riassunto di tutto questo è racchiuso in una poesia di Charles Osgood, un anchorman della Cbs America, che parafrasata racconta la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. “C’era un lavoro importante da fare e a Ognuno fu chiesto di farlo. Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece. Qualcuno si arrabbiò, perché era il lavoro di Ognuno.

Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Qualcuno non l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Qualcuno avrebbe potuto fare”. Noi italiani siamo da sempre il paese dei Gattopardi. A parole vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com’è.

 

Oggi, in questa sala, possiamo raccontarci ancora una volta quanto le riforme siano cruciali per uscire da questa situazione di stallo. E anch’io, come mi è stato chiesto, farò la mia parte e mi concentrerò su alcune poche cose che, a mio parere, sono le più importanti. Ma il punto è che se non cambiamo atteggiamento, tutti quanti – collettivamente e ognuno come singolo – andremo sempre più in basso.

 

Ognuno di noi, ogni individuo, deve farsi un esame di coscienza e decidere qual è il tipo di cambiamento che vuole: il proprio o quello degli altri. Nel farlo, dobbiamo essere consapevoli che il primo richiede sacrifici, coraggio e senso di responsabilità nel costruire l’Italia che vogliamo. L’altro, invece, ci relega al ruolo di spettatori e condanna la società italiana e il futuro del paese a quello di vittima. Vengo ora a ciò per cui sono stato invitato. Non sono certo io la persona che deve indicare l’agenda al governo. E so bene che le risorse oggi sono molto scarse.

 

I fronti su cui intervenire sono così tanti – giustizia, fisco, lavoro, Pubblica amministrazione, infrastrutture, costo del credito, corruzione, evasione, criminalità organizzata… – e gli interessi da toccare sono così vasti che stabilire un ordine di priorità diventa un “dilemma del prigioniero”. Io mi limito a parlarvi da uno che fa impresa e che vede due problemi di fondo: la mancanza di occupazione e l’assenza di capitali, di gente che è disposta a investire, soprattutto dall’estero. E’ una situazione che si è prodotta a causa di tre fattori fondamentali, con cui mi sono scontrato negli ultimi dieci anni di gestione quotidiana delle nostre aziende: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto e la burocrazia.

 

Purtroppo in Italia c’è la tendenza a discutere delle questioni economiche, specialmente quelle sul mercato del lavoro, in termini ideologici. E’ una vecchia concezione dei rapporti di forza che nell’ultimo mezzo secolo ha bloccato il paese su posizioni prive di sostanza e ci ha portati a risultati opposti a quelli che si voleva perseguire. C’è una ragione molto semplice per cui ci troviamo a questo punto.

 

Il problema sta nel modo in cui si concepisce il rapporto tra capitale e collettività; tra stato, aziende e cittadini. Il sistema italiano ha spostato la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini sulle aziende.

 

Nel momento in cui una persona acquisisce un posto di lavoro, l’azienda diventa l’ente responsabile per il suo lavoro, per la sua famiglia, per il suo futuro. E ne assume anche una responsabilità morale, perché s’instaura una relazione che solo in casi eccezionali può terminare. Per quanto si dica, sono le aziende stesse che, in cicli economici normali, versano all’Inps i contributi per garantire la cassa integrazione ai lavoratori italiani.

 

Lo stato, invece che riprendersi in carico la gestione dei suoi cittadini – in caso di cambiamenti dei mercati che sono duraturi, permanenti e irreversibili — fa di tutto per rendere quel rapporto con l’azienda il più stretto e vincolante possibile. Lo fa durare a vita per legge, o perlomeno fino alla pensione. E’ una concezione a dir poco anomala, che non esiste più in nessun paese civile del mondo.

 

E’ un concetto da economia socialista, che ricorda tempi passati. Dove faceva poca differenza se la gestione dei cittadini era nelle mani dirette dello stato o di imprese pubbliche o parastatali. E’ un concetto che privilegia il posto di lavoro in sé, a scapito della crescita e della mobilità sociale, della formazione e dello sviluppo dei cittadini.

 

E’ una visione dell’economia statica, che non tutela davvero l’occupazione né i salari. Rende solo le imprese più deboli, perché blocca i processi di cambiamento e di rinascita che si generano naturalmente dal funzionamento dei mercati liberi. Non ci sono omologhi in Europa.

 

Il Global Competitiveness Report, appena pubblicato dal World Economic Forum, che mette a confronto 144 paesi nel mondo, mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136esimo posto, ultima degli stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo la facilità d’ingresso e uscita dal mercato del lavoro, ci spetta addirittura la posizione 141. Per carità, sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela.

 

Questa impostazione culturale ha prodotto l’ostilità che continua a esistere oggi in Italia verso le imprese. Ed è la madre di un percorso storico conflittuale che ha dilaniato il nostro paese per lungo tempo. E che, purtroppo, in parte della società sopravvive ancora e vede contrapposti “capitale e lavoro”, “padroni e operai”, “sfruttati e sfruttatori”. Una tassa come l’Irap, che tutti a parole considerano iniqua, ma continua ad esistere, è figlia di questa cultura anti industriale. Non si spiega altrimenti perché, in momenti di disoccupazione drammatica, s’imponga sulle aziende una tassa che cresce in proporzione al numero di persone impiegate.

 

Questa cultura è anche la ragione per cui quando un’attività in perdita – senza alcuna prospettiva di ripresa – chiude, il sistema italiano è incapace di reagire e lo vive come un atto di violenza gratuito e immotivato. Mi chiedo quando capiremo, anche in Italia, che la sfida non è tra imprese e lavoratori; ma è tra noi, tutti insieme, e il resto del mondo, che rappresenta la vera concorrenza. Mi chiedo quando il paese capirà che noi non vogliamo lavoratori “usa e getta”, ma persone coinvolte, che si sentano parte di un progetto per il futuro.

 

Mi chiedo anche quando ci renderemo conto che solo un’economia di mercato può creare le condizioni ideali alla crescita, alla competizione e all’innovazione. In un paese che riconosce e promuove il libero mercato, ognuno deve fare il proprio lavoro. Il compito delle imprese è quello di investire e di rischiare, di crescere e di rafforzarsi nel mondo, di garantire un ambiente dinamico e aperto al futuro. Lo stato deve fare lo stato. Né scaricare sulle imprese la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini né semplicemente assisterli.

 

Persino quella che alcuni considerano l’unica vera riforma varata finora, e che ha messo in sicurezza il nostro sistema pensionistico, di fatto ha provveduto, almeno temporaneamente, a sollevare le casse dello stato ma ha spostato il problema su aziende e cittadini. E ovviamente non è servita a far ripartire l’economia.

 

Il nostro auspicio è che il Jobs Act, che è ancora tutto da definire, riporti in equilibrio il rapporto tra stato, azienda e dipendenti. E’ chiaro che il nostro Welfare State, un sistema pensato per aiutare i più deboli oggi ha perso la sua efficacia. Non ci ha protetti dalla crisi e non ha la capacità di gestire i cambiamenti che avvengono alla velocità della luce in un mondo che adesso è completamente piatto e in cui la concorrenza è spietata ed efficace.

 

La cosa paradossale è che quelle regole che erano state pensate per difendere il lavoro ci hanno portati a un punto in cui la cosa più difficile è creare lavoro. Bisogna trovare una strada diversa che porti a risultati migliori.

 

L’obiettivo è allineare il nostro ordinamento a quello della maggior parte d’Europa, ispirandoci ai principi della flexicurity. Mi rendo conto che è impossibile, per l’Italia, con il suo passato, adottare un sistema anglosassone. Sarebbe visto come un attacco ai valori culturali del paese. Così com’è inutile innamorarsi del sistema tedesco, che ha radici storiche non replicabili altrove, o del sistema di chiunque altro.

 

L’Italia può e deve trovare la propria strada, il giusto punto di equilibrio tra esigenze di flessibilità e senso di sicurezza per i lavoratori. Possiamo guardare a quello che è stato fatto altrove, imparare dalle loro esperienze, ma poi dobbiamo costruire la nostra realtà, senza copiare da nessuno. E soprattutto senza farlo al ribasso.

 

Un’intera gamma di misure è potenzialmente disponibile. Tutte quante sono perfettamente compatibili con una società aperta, libera e in libero mercato. Penso a politiche attive che aiutino i lavoratori ad affrontare i cambiamenti del mercato, i periodi di disoccupazione temporanea e la transizione verso un nuovo lavoro.

 

Penso a iniziative di formazione adeguate, che coinvolgano anche le aziende, per assicurare alle persone una crescita lavorativa e sociale continua. E penso a sistemi di protezione sociale moderni, che forniscano un adeguato sostegno al reddito e agevolino la mobilità sul mercato del lavoro. Dobbiamo smettere di pensare alle misure di welfare come a un mezzo per riparare a posteriori i danni, e trasformarle in modo che siano in grado di offrire alle persone una sicurezza attiva contro i rischi.

 

L’altro tema che vorrei affrontare è la certezza del diritto, specialmente in materia di lavoro. Non entro in ragionamenti teorici sulla legislazione italiana. Vi porto la nostra esperienza, pura e semplice. Come saprete, alla fine del 2011, la Fiat ha sottoscritto un contratto collettivo specifico di lavoro, che la Fiom non ha firmato. In base a una norma di legge, di una chiarezza cristallina – e cioè l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori – chi non firma il contratto non ha diritto a rappresentanze sindacali in azienda. Noi abbiamo applicato la legge, in modo coerente e rigoroso.

 

Ci siamo visti intentare 62 cause. 46 si sono chiuse a nostro favore e 7 contro. Altre 7 sono state rinviate alla Corte Costituzionale. Due sono rimaste in sospeso. Dopo un anno e mezzo, la Corte Costituzionale ha ribaltato l’indirizzo che lei stessa aveva espresso, in numerose occasioni, per 17 anni. Dichiarando l’articolo 19 non conforme alla Costituzione italiana, ha cancellato uno dei pochi punti di riferimento certi. Ad oggi, non esiste alcun parametro affidabile per stabilire quale sindacato è rappresentativo, e ha quindi titolo per negoziare con l’impresa, e quale invece no. Vi chiedo se questo è un modo per dare certezze a un’azienda.

 

La soluzione non è roba da marziani. Dobbiamo semplificare l’apparato normativo esistente. E non cumulando leggi su leggi, come si è fatto negli ultimi anni. Serve poi una regola chiara sulla rappresentanza dei lavoratori. Gli accordi stipulati dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori devono essere efficaci nei confronti di tutta la comunità aziendale e rispettati da tutti. In un momento delicato come questo, non possiamo più difendere un sistema di tirannia della minoranza, giocato peraltro sulla pelle delle persone da tutelare.

 

C’è ancora un altro elemento-chiave su cui dobbiamo intervenire per recuperare la fiducia e la credibilità internazionale. Ed è l’eccesso di burocrazia. La classifica della Banca mondiale sulle procedure burocratiche e amministrative connesse all’attività d’impresa ci vede al 65esimo posto, fra gli ultimi dei paesi Ocse. Secondo il report, è più facile fare impresa in Botswana, in Ruanda, in Armenia e pure nelle isole Tonga. In Italia, ci vogliono 234 giorni per ottenere un permesso di costruzione. La media europea è sotto i cento giorni. Presentare la dichiarazione dei redditi richiede 250 ore rispetto alle circa 50 ore dei paesi più virtuosi.

 

Il costo degli adempimenti amministrativi per le imprese italiane supera i 27 miliardi l’anno. Avviarne una nuova costa 2.100 euro, contro una media europea di 370 euro. Perfino l’allaccio a una rete elettrica per un’impresa è complicato: ci vogliono 5 procedure per 124 ore di lavoro. E la burocrazia statale ha introdotto 629 nuove norme fiscali negli ultimi sei anni. Con l’obiettivo di semplificare, ovviamente. La burocrazia non solo costa cara, ma uccide lo spirito d’impresa. Inoltre, il più delle volte finisce per proteggere aziende inefficienti, che scaricano i maggiori costi sui consumatori. Per questo, la riforma della Pubblica amministrazione dovrebbe essere ispirata ai criteri della semplicità, della chiarezza e del pragmatismo.

 

La Fiat, in questi anni – come del resto tutte le imprese italiane – ha provato più volte, sulla propria pelle, gli effetti negativi di un sistema lento e arretrato, di una burocrazia opaca e contorta, di una giustizia aleatoria. Da sei anni ormai stiamo gestendo una realtà italiana in perdita, ma, nonostante ciò, abbiamo deciso di non chiudere nessuno stabilimento, di non licenziare nessuno, di continuare a investire e di restare comunque in Italia.

 

 

Le ragioni per cui lo stiamo facendo sono due. Primo, perché siamo fondamentalmente italiani. Abbiamo una grande storia alle spalle, una tradizione secolare che è parte della nostra natura e che è importante proteggere. Su questa eccellenza, ad esempio, abbiamo centrato la nostra nuova strategia, per valorizzare l’alto di gamma con i marchi Alfa Romeo e Maserati, e per trasformare i nostri impianti italiani in una base di produzione per le esportazioni sui mercati di tutto il mondo.

 

La seconda ragione è che non si può aspettare all’infinito che sia il sistema politico a muoversi. In tutti questi anni, ho visto cambiare poco o nulla nel sistema-paese. E’ da tempo, ad esempio, che Fiat solleva il problema dell’export e la necessità di facilitare i processi per le esportazioni. Non è successo nulla, finora. Quello che ho detto al Meeting di Rimini, la scorsa settimana, invitando tutti a fare il primo passo, è esattamente ciò che ha fatto la Fiat. Ci siamo mossi da soli. Abbiamo fatto scelte coraggiose e di rottura con il passato per compensare in parte i gap strutturali del paese – compreso uscire da Confindustria – per riacquistare una libertà di contrattazione con i nostri collaboratori. Se fossimo rimasti fermi saremmo probabilmente falliti. O, nella migliore delle ipotesi, avremmo dovuto prendere decisioni impopolari.

 

Noi, invece, abbiamo cercato da soli di introdurre elementi di modernità nel contesto in cui operiamo. Ma il nostro cerchio d’azione è comunque limitato. E mi rendo conto che non si può chiedere a tutti di fare la stessa cosa, o perlomeno nella stessa misura. Concludo con un consiglio – non richiesto – e con un invito. I “Mille Giorni” sono appena iniziati. Sarà la prova dei fatti a darne un giudizio.

 

Ci troviamo però con un governo giovane e con un gruppo di persone determinate a scardinare il sistema. Il consiglio che posso dare loro è questo: dalla vostra “to-do-list”, che sappiamo essere lunghissima, scegliete tre cose, realizzatele, e poi passate alle tre successive. L’invito, invece, è quello di dimagrire, di asciugare la presenza dello stato nella vita della gente e delle imprese. Il futuro dell’Italia dipende molto più dalla capacità di rimuovere gli ostacoli dai binari più che da ulteriori ingerenze. Le opportunità e il lavoro si creano solo se i meccanismi economici sono efficienti e gli stimoli del mercato sono forti.

 

Nel racconto “I Cosacchi”, sulla ricerca della verità e il senso della vita, Tolstoj scrive: “Come sempre suole accadere in un lungo viaggio, alle prime due o tre stazioni l’immaginazione resta ferma nel luogo da dove sei partito, e poi d’un tratto, col primo mattino incontrato per via, si volge verso la meta del viaggio e ormai costruisce là i castelli dell’avvenire”. L’Italia è stata ferma in quella seconda stazione per tanto, troppo tempo. Con questo, auguro a me – a tutti noi – che l’Italia lasci finalmente la stazione di Tolstoj e inizi davvero il suo viaggio verso la modernità e la costruzione di un paese per giovani. Grazie a tutti e buon lavoro.

MARCHIONNE PUNGOLA RENZI: “FATE 3 COSE MA BENE”.

http://video.ilsole24ore.com/SoleOnLine5/Video/Notizie/Italia/2014/WORKSHOP-AMBROSETTI/cernobbio-marchionne/marchionne.php

 

Sergio Marchionne – Trascrizione del discorso al Forum Ambrosetti di Cernobbio – settembre 2014

 

Signore e Signori, buongiorno. Mi scuso in anticipo con tutti quelli a cui non piacciono le slide, ma ne ho portate alcune. Mi pare che, tra i relatori di oggi, la mia voce sia l’unica dal mondo delle imprese, ma non ho la pretesa né il ruolo di parlarvi a nome di tutti. Quello che posso fare è portarvi l’esperienza di un gruppo industriale come Fiat Chrysler Automobiles, che opera in 190 paesi e occupa più di 300.000 persone nel mondo.

 

E se contiamo anche Cnh Industrial, la società nata nel 2011 dalla scissione del gruppo Fiat e in cui sono ancora coinvolto, stiamo parlando di una realtà complessiva di oltre 370.000 lavoratori; di due aziende globali che nel loro insieme fatturano circa 113 miliardi di euro. Ho pensato a lungo su come aprire il mio intervento oggi.

 

Nelle scorse settimane, e specialmente negli ultimi giorni in occasione di questa conferenza, si sono sentiti e letti fiumi di parole su politiche e modalità per far ripartire questo paese. Il riassunto di tutto questo è racchiuso in una poesia di Charles Osgood, un anchorman della Cbs America, che parafrasata racconta la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. “C’era un lavoro importante da fare e a Ognuno fu chiesto di farlo. Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece. Qualcuno si arrabbiò, perché era il lavoro di Ognuno.

Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Qualcuno non l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Qualcuno avrebbe potuto fare”. Noi italiani siamo da sempre il paese dei Gattopardi. A parole vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com’è.

 

Oggi, in questa sala, possiamo raccontarci ancora una volta quanto le riforme siano cruciali per uscire da questa situazione di stallo. E anch’io, come mi è stato chiesto, farò la mia parte e mi concentrerò su alcune poche cose che, a mio parere, sono le più importanti. Ma il punto è che se non cambiamo atteggiamento, tutti quanti – collettivamente e ognuno come singolo – andremo sempre più in basso.

 

Ognuno di noi, ogni individuo, deve farsi un esame di coscienza e decidere qual è il tipo di cambiamento che vuole: il proprio o quello degli altri. Nel farlo, dobbiamo essere consapevoli che il primo richiede sacrifici, coraggio e senso di responsabilità nel costruire l’Italia che vogliamo. L’altro, invece, ci relega al ruolo di spettatori e condanna la società italiana e il futuro del paese a quello di vittima. Vengo ora a ciò per cui sono stato invitato. Non sono certo io la persona che deve indicare l’agenda al governo. E so bene che le risorse oggi sono molto scarse.

 

I fronti su cui intervenire sono così tanti – giustizia, fisco, lavoro, Pubblica amministrazione, infrastrutture, costo del credito, corruzione, evasione, criminalità organizzata… – e gli interessi da toccare sono così vasti che stabilire un ordine di priorità diventa un “dilemma del prigioniero”. Io mi limito a parlarvi da uno che fa impresa e che vede due problemi di fondo: la mancanza di occupazione e l’assenza di capitali, di gente che è disposta a investire, soprattutto dall’estero. E’ una situazione che si è prodotta a causa di tre fattori fondamentali, con cui mi sono scontrato negli ultimi dieci anni di gestione quotidiana delle nostre aziende: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto e la burocrazia.

 

Purtroppo in Italia c’è la tendenza a discutere delle questioni economiche, specialmente quelle sul mercato del lavoro, in termini ideologici. E’ una vecchia concezione dei rapporti di forza che nell’ultimo mezzo secolo ha bloccato il paese su posizioni prive di sostanza e ci ha portati a risultati opposti a quelli che si voleva perseguire. C’è una ragione molto semplice per cui ci troviamo a questo punto.

 

Il problema sta nel modo in cui si concepisce il rapporto tra capitale e collettività; tra stato, aziende e cittadini. Il sistema italiano ha spostato la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini sulle aziende.

 

Nel momento in cui una persona acquisisce un posto di lavoro, l’azienda diventa l’ente responsabile per il suo lavoro, per la sua famiglia, per il suo futuro. E ne assume anche una responsabilità morale, perché s’instaura una relazione che solo in casi eccezionali può terminare. Per quanto si dica, sono le aziende stesse che, in cicli economici normali, versano all’Inps i contributi per garantire la cassa integrazione ai lavoratori italiani.

 

Lo stato, invece che riprendersi in carico la gestione dei suoi cittadini – in caso di cambiamenti dei mercati che sono duraturi, permanenti e irreversibili — fa di tutto per rendere quel rapporto con l’azienda il più stretto e vincolante possibile. Lo fa durare a vita per legge, o perlomeno fino alla pensione. E’ una concezione a dir poco anomala, che non esiste più in nessun paese civile del mondo.

 

E’ un concetto da economia socialista, che ricorda tempi passati. Dove faceva poca differenza se la gestione dei cittadini era nelle mani dirette dello stato o di imprese pubbliche o parastatali. E’ un concetto che privilegia il posto di lavoro in sé, a scapito della crescita e della mobilità sociale, della formazione e dello sviluppo dei cittadini.

 

E’ una visione dell’economia statica, che non tutela davvero l’occupazione né i salari. Rende solo le imprese più deboli, perché blocca i processi di cambiamento e di rinascita che si generano naturalmente dal funzionamento dei mercati liberi. Non ci sono omologhi in Europa.

 

Il Global Competitiveness Report, appena pubblicato dal World Economic Forum, che mette a confronto 144 paesi nel mondo, mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136esimo posto, ultima degli stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo la facilità d’ingresso e uscita dal mercato del lavoro, ci spetta addirittura la posizione 141. Per carità, sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela.

 

Questa impostazione culturale ha prodotto l’ostilità che continua a esistere oggi in Italia verso le imprese. Ed è la madre di un percorso storico conflittuale che ha dilaniato il nostro paese per lungo tempo. E che, purtroppo, in parte della società sopravvive ancora e vede contrapposti “capitale e lavoro”, “padroni e operai”, “sfruttati e sfruttatori”. Una tassa come l’Irap, che tutti a parole considerano iniqua, ma continua ad esistere, è figlia di questa cultura anti industriale. Non si spiega altrimenti perché, in momenti di disoccupazione drammatica, s’imponga sulle aziende una tassa che cresce in proporzione al numero di persone impiegate.

 

Questa cultura è anche la ragione per cui quando un’attività in perdita – senza alcuna prospettiva di ripresa – chiude, il sistema italiano è incapace di reagire e lo vive come un atto di violenza gratuito e immotivato. Mi chiedo quando capiremo, anche in Italia, che la sfida non è tra imprese e lavoratori; ma è tra noi, tutti insieme, e il resto del mondo, che rappresenta la vera concorrenza. Mi chiedo quando il paese capirà che noi non vogliamo lavoratori “usa e getta”, ma persone coinvolte, che si sentano parte di un progetto per il futuro.

 

Mi chiedo anche quando ci renderemo conto che solo un’economia di mercato può creare le condizioni ideali alla crescita, alla competizione e all’innovazione. In un paese che riconosce e promuove il libero mercato, ognuno deve fare il proprio lavoro. Il compito delle imprese è quello di investire e di rischiare, di crescere e di rafforzarsi nel mondo, di garantire un ambiente dinamico e aperto al futuro. Lo stato deve fare lo stato. Né scaricare sulle imprese la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini né semplicemente assisterli.

 

Persino quella che alcuni considerano l’unica vera riforma varata finora, e che ha messo in sicurezza il nostro sistema pensionistico, di fatto ha provveduto, almeno temporaneamente, a sollevare le casse dello stato ma ha spostato il problema su aziende e cittadini. E ovviamente non è servita a far ripartire l’economia.

 

Il nostro auspicio è che il Jobs Act, che è ancora tutto da definire, riporti in equilibrio il rapporto tra stato, azienda e dipendenti. E’ chiaro che il nostro Welfare State, un sistema pensato per aiutare i più deboli oggi ha perso la sua efficacia. Non ci ha protetti dalla crisi e non ha la capacità di gestire i cambiamenti che avvengono alla velocità della luce in un mondo che adesso è completamente piatto e in cui la concorrenza è spietata ed efficace.

 

La cosa paradossale è che quelle regole che erano state pensate per difendere il lavoro ci hanno portati a un punto in cui la cosa più difficile è creare lavoro. Bisogna trovare una strada diversa che porti a risultati migliori.

 

L’obiettivo è allineare il nostro ordinamento a quello della maggior parte d’Europa, ispirandoci ai principi della flexicurity. Mi rendo conto che è impossibile, per l’Italia, con il suo passato, adottare un sistema anglosassone. Sarebbe visto come un attacco ai valori culturali del paese. Così com’è inutile innamorarsi del sistema tedesco, che ha radici storiche non replicabili altrove, o del sistema di chiunque altro.

 

L’Italia può e deve trovare la propria strada, il giusto punto di equilibrio tra esigenze di flessibilità e senso di sicurezza per i lavoratori. Possiamo guardare a quello che è stato fatto altrove, imparare dalle loro esperienze, ma poi dobbiamo costruire la nostra realtà, senza copiare da nessuno. E soprattutto senza farlo al ribasso.

 

Un’intera gamma di misure è potenzialmente disponibile. Tutte quante sono perfettamente compatibili con una società aperta, libera e in libero mercato. Penso a politiche attive che aiutino i lavoratori ad affrontare i cambiamenti del mercato, i periodi di disoccupazione temporanea e la transizione verso un nuovo lavoro.

 

Penso a iniziative di formazione adeguate, che coinvolgano anche le aziende, per assicurare alle persone una crescita lavorativa e sociale continua. E penso a sistemi di protezione sociale moderni, che forniscano un adeguato sostegno al reddito e agevolino la mobilità sul mercato del lavoro. Dobbiamo smettere di pensare alle misure di welfare come a un mezzo per riparare a posteriori i danni, e trasformarle in modo che siano in grado di offrire alle persone una sicurezza attiva contro i rischi.

 

L’altro tema che vorrei affrontare è la certezza del diritto, specialmente in materia di lavoro. Non entro in ragionamenti teorici sulla legislazione italiana. Vi porto la nostra esperienza, pura e semplice. Come saprete, alla fine del 2011, la Fiat ha sottoscritto un contratto collettivo specifico di lavoro, che la Fiom non ha firmato. In base a una norma di legge, di una chiarezza cristallina – e cioè l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori – chi non firma il contratto non ha diritto a rappresentanze sindacali in azienda. Noi abbiamo applicato la legge, in modo coerente e rigoroso.

 

Ci siamo visti intentare 62 cause. 46 si sono chiuse a nostro favore e 7 contro. Altre 7 sono state rinviate alla Corte Costituzionale. Due sono rimaste in sospeso. Dopo un anno e mezzo, la Corte Costituzionale ha ribaltato l’indirizzo che lei stessa aveva espresso, in numerose occasioni, per 17 anni. Dichiarando l’articolo 19 non conforme alla Costituzione italiana, ha cancellato uno dei pochi punti di riferimento certi. Ad oggi, non esiste alcun parametro affidabile per stabilire quale sindacato è rappresentativo, e ha quindi titolo per negoziare con l’impresa, e quale invece no. Vi chiedo se questo è un modo per dare certezze a un’azienda.

 

La soluzione non è roba da marziani. Dobbiamo semplificare l’apparato normativo esistente. E non cumulando leggi su leggi, come si è fatto negli ultimi anni. Serve poi una regola chiara sulla rappresentanza dei lavoratori. Gli accordi stipulati dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori devono essere efficaci nei confronti di tutta la comunità aziendale e rispettati da tutti. In un momento delicato come questo, non possiamo più difendere un sistema di tirannia della minoranza, giocato peraltro sulla pelle delle persone da tutelare.

 

C’è ancora un altro elemento-chiave su cui dobbiamo intervenire per recuperare la fiducia e la credibilità internazionale. Ed è l’eccesso di burocrazia. La classifica della Banca mondiale sulle procedure burocratiche e amministrative connesse all’attività d’impresa ci vede al 65esimo posto, fra gli ultimi dei paesi Ocse. Secondo il report, è più facile fare impresa in Botswana, in Ruanda, in Armenia e pure nelle isole Tonga. In Italia, ci vogliono 234 giorni per ottenere un permesso di costruzione. La media europea è sotto i cento giorni. Presentare la dichiarazione dei redditi richiede 250 ore rispetto alle circa 50 ore dei paesi più virtuosi.

 

Il costo degli adempimenti amministrativi per le imprese italiane supera i 27 miliardi l’anno. Avviarne una nuova costa 2.100 euro, contro una media europea di 370 euro. Perfino l’allaccio a una rete elettrica per un’impresa è complicato: ci vogliono 5 procedure per 124 ore di lavoro. E la burocrazia statale ha introdotto 629 nuove norme fiscali negli ultimi sei anni. Con l’obiettivo di semplificare, ovviamente. La burocrazia non solo costa cara, ma uccide lo spirito d’impresa. Inoltre, il più delle volte finisce per proteggere aziende inefficienti, che scaricano i maggiori costi sui consumatori. Per questo, la riforma della Pubblica amministrazione dovrebbe essere ispirata ai criteri della semplicità, della chiarezza e del pragmatismo.

 

La Fiat, in questi anni – come del resto tutte le imprese italiane – ha provato più volte, sulla propria pelle, gli effetti negativi di un sistema lento e arretrato, di una burocrazia opaca e contorta, di una giustizia aleatoria. Da sei anni ormai stiamo gestendo una realtà italiana in perdita, ma, nonostante ciò, abbiamo deciso di non chiudere nessuno stabilimento, di non licenziare nessuno, di continuare a investire e di restare comunque in Italia.

 

 

Le ragioni per cui lo stiamo facendo sono due. Primo, perché siamo fondamentalmente italiani. Abbiamo una grande storia alle spalle, una tradizione secolare che è parte della nostra natura e che è importante proteggere. Su questa eccellenza, ad esempio, abbiamo centrato la nostra nuova strategia, per valorizzare l’alto di gamma con i marchi Alfa Romeo e Maserati, e per trasformare i nostri impianti italiani in una base di produzione per le esportazioni sui mercati di tutto il mondo.

 

La seconda ragione è che non si può aspettare all’infinito che sia il sistema politico a muoversi. In tutti questi anni, ho visto cambiare poco o nulla nel sistema-paese. E’ da tempo, ad esempio, che Fiat solleva il problema dell’export e la necessità di facilitare i processi per le esportazioni. Non è successo nulla, finora. Quello che ho detto al Meeting di Rimini, la scorsa settimana, invitando tutti a fare il primo passo, è esattamente ciò che ha fatto la Fiat. Ci siamo mossi da soli. Abbiamo fatto scelte coraggiose e di rottura con il passato per compensare in parte i gap strutturali del paese – compreso uscire da Confindustria – per riacquistare una libertà di contrattazione con i nostri collaboratori. Se fossimo rimasti fermi saremmo probabilmente falliti. O, nella migliore delle ipotesi, avremmo dovuto prendere decisioni impopolari.

 

Noi, invece, abbiamo cercato da soli di introdurre elementi di modernità nel contesto in cui operiamo. Ma il nostro cerchio d’azione è comunque limitato. E mi rendo conto che non si può chiedere a tutti di fare la stessa cosa, o perlomeno nella stessa misura. Concludo con un consiglio – non richiesto – e con un invito. I “Mille Giorni” sono appena iniziati. Sarà la prova dei fatti a darne un giudizio.

 

Ci troviamo però con un governo giovane e con un gruppo di persone determinate a scardinare il sistema. Il consiglio che posso dare loro è questo: dalla vostra “to-do-list”, che sappiamo essere lunghissima, scegliete tre cose, realizzatele, e poi passate alle tre successive. L’invito, invece, è quello di dimagrire, di asciugare la presenza dello stato nella vita della gente e delle imprese. Il futuro dell’Italia dipende molto più dalla capacità di rimuovere gli ostacoli dai binari più che da ulteriori ingerenze. Le opportunità e il lavoro si creano solo se i meccanismi economici sono efficienti e gli stimoli del mercato sono forti.

 

Nel racconto “I Cosacchi”, sulla ricerca della verità e il senso della vita, Tolstoj scrive: “Come sempre suole accadere in un lungo viaggio, alle prime due o tre stazioni l’immaginazione resta ferma nel luogo da dove sei partito, e poi d’un tratto, col primo mattino incontrato per via, si volge verso la meta del viaggio e ormai costruisce là i castelli dell’avvenire”. L’Italia è stata ferma in quella seconda stazione per tanto, troppo tempo. Con questo, auguro a me – a tutti noi – che l’Italia lasci finalmente la stazione di Tolstoj e inizi davvero il suo viaggio verso la modernità e la costruzione di un paese per giovani. Grazie a tutti e buon lavoro.

Sergio Marchionne al Workshop Ambrosetti di Cernobbio: “Italia Paese di gattopardi”

Roma, 7 settembre 2014 – “Noi italiani da sempre siamo il paese dei gattopardi: vogliamo che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Se non cambiamo atteggiamento tutti quanti andremo sempre più in basso”, ha esordito Marchionne, amministratore delegato di Fit-Chrysler al Workshop Ambrosetti, al momento in corso. “I nodi che l’Italia deve affrontare sono la mancanza di occupazione e di carenza di capitali. “Mi sono scontrato con tre fattori fondamentali: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto e la burocrazia“.

La storia di Ognuno, qualcuno, ciascuno e nessuno – “Ho pensato a lungo su come aprire il mio intervento oggi. Nelle scorse settimane, e specialmente negli ultimi giorni in occasione di questa conferenza, si sono sentiti e letti fiumi di parole su politiche e modalità per far ripartire questo Paese. Il riassunto di tutto questo è racchiuso in una poesia di Charles Osgood, un anchorman della CBS America, che parafrasata racconta la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. C’era un lavoro importante da fare” racconta il numero uno di Fiat Chrysler “e a Ognuno fu chiesto di farlo. Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece. Qualcuno si arrabbiò, perchè era il lavoro di Ognuno. Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Qualcuno non l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perchè Nessuno fece ciò che Qualcuno avrebbe potuto fare“.

Irap penalizzante e mercato del lavoro anomalo – “In un contesto nel quale serve migliorare l’occupazione, noi abbiamo l’Irap che invece si paga di più al crescere dei posti di lavoro. In Italia esiste un mercato del lavor anomalo, che non esiste in nessun altro paese” spiega Marchionne, che poi rincara la dose: “è inutile innamorarsi del sistema tedesco, ed impossibile adottare il sistema anglosassone”. Inoltre prosegue a muso duro l’ad, “Non è più accettabile la tirannia della minoranza nel mondo dei sindacati. Manca la certezza del diritto, soprattutto in materia di lavoro”, ha detto Marchionne , “vi porto la nostra esperienza pura e semplice. Alla fine del 2011 abbiamo fatto un contratto specifico che la Fiom non ha firmato. In base ad una norma di legge di una chiarezza cristallina chi non firma non ha diritto a rappresentanze sindacali. Ci siamo visti intentare 62 cause” ha detto  “di queste: 46 chiuse a nostro favore, 7 contro, 7 con rinvio alla Corte costituzionale e 2 rimaste in sospeso. Dopo un anno e mezzo la Corte costituzionale ha ribaltato l’indirizzo, dichiarando l’articolo 19 non conforme alla Costituzione italiana. Cancellando di fatto”, ha detto Marchionne, “uno dei parametri certi”.Non esiste alcun parametro certo. Mi chiedo se è modo per dare certezza alle aziende. Dobbiamo semplificare l’apparato normativo e non cumulare leggi su leggi. Servono regole chiare per la rappresentanza dei lavoratori e devono essere efficaci per la comunità aziendale e rispettate da tutti“.

Siamo fondamentalmente italiani – “Siamo fondamentalmente italiani. Abbiamo una storia secolare che è importante proteggere. Su questa eccellenza abbiamo centrato la nostra strategia di valorizzare il nostro alto di gamma coi marchi Alfa e Maserati”. Il suggerimento di Marchionne a Renzi è quello “Di dimagrire, ridurre la presenza dello Stato nella vita delle imprese. I mille giorni sono appena iniziati, sarà la prova dei fatti a dare il giudizio, il nostro consiglio è scegliete dalla to-do-list tre cose, realizzatele e poi passate alle tre successive La burocrazia non solo costa cara ma uccide lo spirito di impresa”, ha affermato Sergio Marchionne nel suo intervento a Cernobbio. “Per questo”, aggiunge, “la riforma della Pa dovrebbe essere ispirata a criteri di pragmatismo. Il problema continua a essere anche il sistema lento e opaco della giustizia, oggi contorta”.

No a lavoratori uso e getta – “Mi chiedo quando il Paese capirà che noi non vogliamo lavoratori usa e getta, ma persone coinvolte, che si sentano parte di un progetto per il futuro.  In particolare, Marchionne evidenzia come “da tempo Fiat sollevi il problema di facilitare i processi per le esportazioni, quando invece non è successo assolutamente nulla. Ecco allora che fare il primo passo è assolutamente ciò che ha fatto la Fiat. Ci siamo mossi da soli, abbiamo fatto scelte coraggiose e di rottura con il passato per compensare in parte il gap strutturale del Paese, compreso uscire da Confindustria per riacquistare una libertà di contrattazione con i nostri collaboratori. Se fossimo rimasti fermi – tiene a sottolineare – saremmo probabilmente falliti o nella migliore delle ipotesi prendere decisioni impopolari. Noi invece abbiamo cercato da soli di introdurre elementi di modernità“.

Cernobbio, Marchionne contro i sindacati Al governo: “Scegliete tre cose e fatele”

 

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“Non è più accettabile la tirannia della minoranza nel mondo dei sindacati”. Lo ha detto Sergio Marchionne intervenendo al Forum Ambrosetti a Cernobbio. L’ad della Fiat si è poi rivolto al governo: “Deve dimagrire, ridurre la presenza dello Stato nella vita delle imprese. Il nostro consiglio è: scegliete dalla to do list tre cose, realizzatele e poi passate alle tre successive”. Sul mercato del Lavoro italiano: “E’ anomalo, non esiste in nessun altro Paese”.

“Inutile guardare a Gb o Germania” – La soluzione per il mondo del Lavoro non è “copiare” le politiche tedesche o britanniche. Ne è convinto Marchionne, secondo cui “è inutile innamorarsi del sistema tedesco e impossibile adottare il sistema anglosassone”.

“Siamo Paese dei gattopardi” – “Noi italiani da sempre siamo il paese dei gattopardi: vogliamo che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Se non cambiamo atteggiamento tutti quanti andremo sempre più in basso”, ha detto Marchionne”.

“Migliorare Occupaizone? Irap ci penalizza” – In un contesto nel quale serve migliorare l’occupazione, noi abbiamo l’Irap che invece si paga di più al crescere dei posti di lavoro”. E’ uno dei “paradossi” che Marchionne ha denunciato parlando al Forum Ambrosetti.

“Nodi? Occupazione e carenza capitali” – I nodi che l’Italia deve affrontare sono la “mancanza di occupazione e la carenza di capitali”. L’ad di Fiat-Chrysler ha poi aggiunto: “Mi sono scontrato con tre fattori fondamentali: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto e la burocrazia”.

“Burocrazia costa e uccide imprese” – Proprio la burocrazia, per Marchionne, è uno dei problemi principali: “La burocrazia non solo costa cara, uccide le imprese. Per compilare una dichiarazione dei redditi servono 250 ore rispetto a 50 ore degli altri paesi. Il costo degli adempimenti costa 27 miliardi l’anno. Avviare una nuova impresa costa 2.100 euro, contro una media di 270 degli altri paesi. L’allaccio alla rete elettrica richiede 5 procedure per 124 ore di lavoro. Sono state approvate 620 nuove norme fiscali negli ultimi 6 anni, ovviamente con gli obiettivi di semplificare”.

“Non vogliamo lavoratori usa e getta” – “Mi chiedo quando il Paese capirà che noi non vogliamo lavoratori usa e getta, ma persone coinvolte, che si sentano parte di un progetto per il futuro”, ha poi detto l’ad del Lingotto.

“Siamo fondamentalmente italiani” –
“Siamo fondamentalmente italiani. Abbiamo una storia secolare che è importante proteggere. Su questa eccellenza abbiamo centrato la nostra strategia di valorizzare il nostro alto di gamma coi marchi Alfa e Maserati”. Così Marchionne è tornato sulle polemiche legate alla delocalizzazione. “Da sei anni ormai stiamo gestendo una realtà italiana in perdita, ma, nonostante ciò, abbiamo deciso di non chiudere nessuno stabilimento, di non licenziare nessuno, di continuare a investire e di restare comunque in Italia”, ha sottolineato.

Frecciata a Montezemolo: “Nessuno è indispensabile” – “L’uscita di Luca Cordero di Montezemolo dalla Ferrari non è in agenda”. Lo ha detto Marchionne a margine del suo intervento a Cernobbio. Il numero uno di Fca, tuttavia, ha poi aggiunto una frase che ha il retrogusto della frecciata: “Ma nessuno è indispensabile”.

L’ad di Fiat, che controlla il 90% della Ferrari, ha poi rincarato la dose: “Sono due le parti della realtà Ferrari che sono importanti per noi. La prima sono ovviamente i risultati economici, i volumi, cosa su cui Luca ha fatto un grandissimo lavoro. L’altra è la gestione sportiva. Il cuore di Ferrari è quello di vincere in Formula1: vedere la Ferrari in queste condizioni avendo i migliori piloti, box di una qualità eccezionale, ingegneri che sono veramente bravi, vedere quel sistema lì e vedere che non vinciamo dal 2008...”

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